di Massimo Palozzi - Settant’anni fa, il 13 ottobre 1953, con un decreto del ministro dei Lavori pubblici Umberto Merlin veniva approvato il primo elenco delle “acque pubbliche scorrenti nel territorio della provincia di Rieti”. Si trattava di un provvedimento rilevante e atteso, giunto a distanza di ben 26 anni dalla costituzione della Provincia, necessario a colmare un lungo vuoto normativo per avere un quadro chiaro e ufficiale dei corsi d’acqua confluiti sotto la giurisdizione reatina a seguito dell’accorpamento dei territori appartenuti in precedenza a L’Aquila e Perugia.
Per una singolare coincidenza, nello stesso periodo a Rieti appariva per la prima volta in assoluto la stampa di un testo che avrebbe poi goduto di fama imperitura. Proprio a quel tempo risale infatti la pubblicazione sulla rivista La Lapa delle parole di Bella ciao, la più conosciuta e iconica canzone antifascista, simbolo ancora oggi della lotta partigiana in Italia e non solo.
La Lapa (sottotitolo: Argomenti di storia e letteratura popolare) era stata fondata nel settembre del 1953 da Eugenio Cirese, ricercatore e saggista nato il 21 febbraio 1884 a Fossalto, in provincia di Campobasso, e morto l’8 febbraio 1955 a Rieti, dove si era trasferito per svolgere la sua attività di ispettore scolastico. Al suo nome è intitolata la scuola primaria di Madonna del Cuore, che fa parte dell’istituto comprensivo “Angelo Maria Ricci”.
Cirese fu un attento studioso della cultura e delle tradizioni molisane, ma una volta giunto in città si dedicò molto anche all’approfondimento della storia e della letteratura locali, curando tra l’altro una raccolta di canti popolari reatini. Nel quadro di queste sue attività si colloca la creazione del periodico La Lapa, che viene ancora oggi annoverato come uno dei principali stimoli all’avvio degli studi sulle tradizioni del capoluogo sabino, nonostante il suo breve ciclo di vita (uscì dal settembre del ’53 al dicembre del ’55, anno della morte del fondatore, per un totale di dieci numeri).
Nel lavoro di redazione lo affiancò il figlio Alberto Mario, noto antropologo, che fu anche protagonista della politica reatina a partire dall’immediato dopoguerra e fino agli anni Settanta. A Rieti sedette infatti in consiglio comunale per il Psi ininterrottamente dal 1° gennaio 1946 al 21 aprile 1970, ricoprì la carica di assessore dal 1946 al 1952 nella prima giunta dopo la caduta del fascismo con sindaco Angelo Sacchetti Sassetti, quindi fu assessore provinciale per quattro anni, dal ’52 al ’56. Esercitò infine come presidente della Provincia, seppure per sole due settimane, dal 5 al 19 maggio 1958. Nato ad Avezzano il 19 giugno 1921, morì a Roma il 1° settembre 2011 con il titolo di professore emerito della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza”.
Fedele agli insegnamenti paterni, Alberto Mario Cirese sviluppò la sua carriera accademica nel campo etno-antropologico. La letteratura popolare fu uno dei temi di elezione dei suoi studi, così come la ricerca scientifica applicata al folclore. Scrisse anche di museografia contadina, con focus sull’antropologia dei patrimoni culturali, branca nella quale eccelse fornendo contributi di primo piano su censimento, catalogazione e valorizzazione dei beni culturali demo-etno-antropologici, secondo la definizione da lui stesso coniata.
Ridurre la biografia di Cirese ai brevi cenni di un articolo giornalistico sarebbe fare torto all’importanza della sua figura di docente e ricercatore. La sua vasta produzione scientifica è tuttora un punto di riferimento nel campo dell’antropologia culturale, ma in questo frangente torna utile l’annotazione dello storico Cesare Bermani, che nel suo saggio uscito nel 2020 indica proprio Cirese come il primo studioso ad essersi interessato a Bella ciao e a catalogarla come un riadattamento di Fiori di tomba II, una nota canzone ottocentesca entrata stabilmente nel repertorio militare sin dalla prima guerra mondiale.
In realtà Bella ciao non era largamente diffusa tra i partigiani del Nord durante le convulse fasi seguite all’armistizio. Forse lo era tra le formazioni che operavano in alcune aree dell’Italia centrale, compresi i dintorni di Rieti. Di sicuro l’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) riconosce che il pezzo divenne inno della Resistenza soltanto molto più tardi, a partire dagli anni Sessanta.
Senza infilarci nell’irrisolto dibattito sulle sue origini, non è comunque difficile osservare l’evidente cambio di paradigma riscontrabile nell’evoluzione della trama.
La prima stesura, quella pubblicata su La Lapa, aveva infatti come protagonista una ragazza: “Stamattina, appena alzata, ho trovato l’invasor” (il passaggio è ripetuto due volte). È insomma la voce di una donna quella che si leva verso l’eroico partigiano, pregandolo di portarla via per non cadere nelle grinfie del nemico oppressore. Ed è sempre lei a chiedergli di seppellirla in montagna, all’ombra di un bel fiore, nel caso dovesse morire prematuramente.
Pur mantenendo la sua struttura originaria, con il passare del tempo il testo si è via via modificato, perdendo in particolare l’impronta femminile che derivava da Fior di tomba, nella versione iniziale modellata sul tema di un amore disperato (“Sta mattina mi sun levata”).
Nella trasposizione pubblicata su La Lapa, al centro del racconto c’è ancora una donna, mentre negli anni seguenti si andò affermando un pronunciato mutamento narrativo in senso maschile (qualcuno direbbe maschilista) con la transizione di genere della protagonista, che nell’adattamento attuale si trasforma in un uomo: “Una mattina mi sono alzato e ho trovato l’invasor”. Capita così che in questo capovolgimento di ruoli sia ora il partigiano “morto per la libertà” a chiedere alla ragazza di essere da lei sepolto in montagna sotto i petali di un bel fiore.
Ai fini simbolici poco importa se a svegliarsi davanti alle truppe d’occupazione nazifasciste sia stato un uomo o una donna. La valenza di Bella ciao sta nel messaggio di fierezza e libertà che trasmettono i suoi versi e però, come si dice in questi casi, bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e restituire alla giovane che si affida alle mani salvifiche del coraggioso partigiano il rango che l’anonimo compositore volle darle. A distanza di settant’anni, è un cambio di prospettiva che non si può continuare ad ignorare.
15-10-2023