a cura di Maurizio Festuccia

Agosto 2019

SCATTO D'AUTORE

MASSIMO RINALDI, NIPOTE D'ARTE

foto

(di Maurizio Festuccia) Ancora un passaggio nel mondo della fotografia reatina. Ancora un incontro nel settore del professionismo, dopo tanto aver parlato di amatorialità in questi anni di Scatto d'Autore. E' la volta di Massimo Rinaldi.

Parlaci dei tuoi esordi nel mondo della fotografia.
"Scelsi l'istituto tecnico industriale, anche perché all'epoca non esistevano scuole ad indirizzo per la fotografia. Magari! Purtroppo invece tutte le primissime nozioni propedeutiche a questo settore le ho dovute imparare da solo, magari carpendole, rubandole all'esperienza di mio zio, uno dei primissimi fotografi della città. Ho iniziato lì, nel 1972, come 'garzone di bottega', assieme al mio amico fraterno Walter Bernardinetti, anch'egli figlio d'arte dato che il padre (Aldo) era socio di mio zio nel laboratorio/negozio di via Garibaldi, fronte teatro. Erano tempi dell'analogico e lo sviluppo&stampa sono stati i primi rudimenti da imparare bene assieme alle prime nozioni di camera oscura che sarebbero poi diventate pane per i nostri denti praticamente... fino ad oggi. Ogni domenica c'era un servizio matrimoniale da seguire ed è stato lì il mio campo di apprendimento più prezioso: rubare il mestiere con gli occhi! 500 lire ad ogni uscita era la nostra 'retribuzione' ma valevano oro per tutto ciò che ti permettevano di acquisire."

Erano quelli i primi passi in questo mondo?
"Nessuno, in famiglia, specialmente nel periodo estivo ti teneva a spasso d'estate e seguire le sorti di mio zio era un modo per tenermi occupato, imparare qualcosa e mettermi in tasca quel po' che serviva per togliermi qualche sfizio. Poi, al reinizio delle scuole, fatti i compiti, tornavi a lavorare a negozio per l'intero pomeriggio; da lì in poi quel supporto iniziale dedicato al lavoro di mio zio, piano piano, divenne una passione che sfociò nel tempo in un mestiere a tutto tondo.
Tutto si... sviluppava in camera oscura, la creatività era a mille, ed ogni foto veniva in pratica realizzata là dentro, tra acidi, vaschette ed ingranditore, un po' alla stregua di quello che oggi si riesce a fare, digitalmente, con photoshop."

Prima di questi esordi, avevi già preso di mira la fotografia?
"Ben, no... onestamente non pensavo affatto alla fotografia, le prime sortite dei 12 anni con amici, con la fidanzatina e, grande mia passione da sempre, con il calcio, ma della foto nemmeno mi sfiorava l'idea!
Solo una volta entrato nel laboratorio di mio zio ci fu il contatto diretto con questo mondo,non seguendo l'iter classico di chi prima ama la fotografia e poi ne fa diventare un'arte, un mestiere. Dentro quelle quattro mura si respirava ovunque e comunque aria di fotografia essendo loro due i numeri uno di Rieti. Ogni avvenimento, ogni occasione pubblica di grande respiro, e quella più strettamente privata, facevano inevitabilmente tappa in quello studio. Uno dei primissimi fu il professor Porfiri, che poi diede vita al primo circolo fotografico in città, a frequentare pressoché quotidianamente il laboratorio."

Quando prese corpo l'idea di farne un lavoro per la vita?
"Possiamo dire che quando quelle 500 lire iniziavano a diventare 1.000, 1.500, il momento del passaggio dalla 'amatorialità' al 'lavoro' fu determinante. Praticamente quando iniziai a fare da solo i sevizi fotografici. L'inaugurazione della sede della Cassa di Risparmio a Pescorocchiano fu il primo evento che mi vide non più solo compartecipe ma soprattutto artefice: oltre al classico a colori, serviva un servizio completo anche in bianconero per i giornali, e mio zio me lo affidò completamente ed all'ultimo momento. Fu un successo, la pietra miliare della mia attività, a soli 16 anni, anche grazie alla impegnativissima Mamiya 330, una biottica, verticale, 6x6, non certo al pari della famosa Rolley, ma pur sempre una grande macchina, direi un... 'banco ottico' portatile. A tutti gli effetti, il mio primissimo servizio fotografico ufficiale che scatenò la seria idea di far diventare quel mestiere un vero e proprio lavoro."

 Quando venne tagliato il cordone ombelicale con lo studio di tuo zio?
"Ho lavorato con loro fino al '77/'78, prima di andare a fare il servizio militare. Ed anche lì ci fu un altro passo verso quella che sarebbe diventata la mia futura professione: da Milano andammo a fare un addestramento in Sardegna. Ero 'capopezzo' di un piccolo plotone di sette persone; si andava a sparare con i 145/35 mod. 1901 (realizzato dall'Arsenale Regio Esercito di Torino, ndr) , i famosi cannoni in uso anche nel Vietnam, ed in quella occasione feci anche delle foto che poi, tornato a Rieti, stampai per riportarle in caserma e regalarle agli amici. Queste foto andarono anche in mano al fratello di un mio amico commilitone (Massimo Caglio) che operava nel mondo della moda lì a Milano. Piacquero molto e avrebbe voluto che mi trasferissi lì per lavorare in società con lui: per una serie di motivi, non se ne fece nulla. Un treno che ho perso di sicuro, un'opportunità unica che forse avrebbe indirizzato la mia carriera fotografica in tutt'altro settore rispetto a quello in cui oggi vivo ed opero."

 Al di là del tuo futuro lavoro, cosa ti piaceva fotografare?
"Mi è sempre piaciuto fotografare i volti, i ritratti in strada di personaggi reatini molto popolari a quel tempo. Al tempo delle prime edizioni della Festa del Sole, venne istituito un bellissimo concorso fotografico e per tre anni consecutivi vinsi il primo premio di una iniziativa voluta direttamente da Renato Buccioni in collaborazione con Marcello Moroni, anch'egli appassionato fotografo. Partecipai con successo anche ad altri concorsi nazionali e sempre con i ritratti ai vari artigiani della nostra città. Mi recavo nelle loro botteghe e mi piaceva riprenderli mentre operavano sui loro prodotti in rame, piuttosto che in legno, in ferro ecc...: chi realizzava botti, cerchi, al Borgo... chi riparava le ruote dei carri... il fabbro ferraio ed il marmista di largo San Giorgio... Ad ogni attimo di tempo disponibile, imbracciavo il mio cinquantino Ducati, con cavalletto annesso, e mi tuffavo in questi laboratori artigianali: un'attrazione mai più riprovata così forte. Una... fucina di scatti creativi.Oggi, invece, da qualche anno, ho scoperto una grande attrazione per le foto in teatro, particolarmente quelle verso la Danza: assieme ad altri due amici/colleghi, seguo il Festival Internazionale come fotografo ufficiale da diverse edizioni. E devo dire con onestà, è un obiettivo che mi sta dando tantissime soddisfazioni di carattere personale oltreché professionale."

 La prima fotocamera, e quelle a venire, quale furono?
" La primissima fu una Voightlander, ottica fissa 35 mm., formato 24x36, regalatami da mio zio prima del servizio di leva, quella che appunto portai con me in Sardegna. Da lì in poi tanta acqua è passata sotto ai ponti: dapprima una Nikon F2 analogica, totalmente manuale, la prima tra la passione e la professione, dopodiché tutte le altre, rigorosamente professionali, che ancor oggi mi consentono di continuare l'attività intrapresa.

 Com'è il tuo rapporto con gli altri fotografi amici e colleghi?
"Oltre allo studio fotografico di mio zio, ho frequentato per un lasso di tempo, anche il laboratorio RealColorRieti di Italo Salvemme dove praticamente son passati tutti gli amici e colleghi fotografi ancora oggi in attività. Si costituirono in una sorta di società riunita assieme allo studio  Rinaldi/Bernardinetti e Foto Lunari: un pool di professionisti eccellente, all'avanguardia in quei tempi. Era un continuo scambio di idee e vedute con loro, un confronto utilissimo che mi è risultato prezioso nel tempo e che ancor oggi costituisce parte delle fondamenta del mio lavoro."

 Quando e come hai poi deciso di aprire 'bottega' in proprio?
"Ho deciso di aprire una mia attività in proprio nel 1989'/90, allorquando mio zio Giovanni abdicò a mio favore nel suo studio di via Garibaldi, dopodiché la mia avventura è proseguita giungendo nel mio attuale negozio di via dei Salici 7, oggi punto di incontro e di riferimento per tanti operatori del settore, clienti ed amatori."

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